“Tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi: la locomotiva ha la strada segnata, il bufalo può scartare di lato e cadere” – Francesco De Gregori, Bufalo Bill
In ogni professione che si rispetti c’è frequentemente un buono, un appassionato che esercita il mestiere secondo deontologia, magari arricchendolo con la propria personale vocazione. C’è un califfo, cioè colui che invece è attratto maggiormente dall’aspetto speculativo-finanziario, ovvero mira esclusivamente all’arricchimento compulsivo e sfrenato. E c’è infine, immancabilmente, anche un cazzaro, ovverosia un affabulatore seriale, estremamente abile a parole, che riesce a vendersi per quello che non è, predicando e praticando il nulla assoluto.
In un mondo perfetto fra i tre non ci sarebbe competizione: il buono dominerebbe in scioltezza in ragione delle solide virtù etiche, che lo conducono naturalmente a confezionare un prodotto di qualità nettamente superiore alla concorrenza.
Superiore in termini di manifattura, quindi di attenzione ai dettagli; superiore in termini estetici, ovvero di bellezza; superiore in termini ergonomici, quindi di funzionalità, ecologia e infine di durata.
Di conseguenza superiore, purtroppo, anche in termini di costo, che tuttavia non verrebbe percepito dagli utenti come un difetto o un deterrente all’acquisto, ma piuttosto come l’ennesimo indice di pregio, in quanto realmente ne rispecchia e ne sottende l’indiscutibile valore.
Nessuno insomma avrebbe da questionare. Si selezionerebbe naturalmente una nicchia di mercato il cui target sono acquirenti informati, motivati e naturalmente interessati a possedere quel valore.
Non mi interessa qui approfondire i concetti di brand, di benchmarking, di stakeholder e tutto il corredo relativo al marketing intorno al marchio.
Mi preme piuttosto sottolineare come in un mercato ideale gli altri due esemplari della specie, il Califfo ed il Cazzaro, sarebbero spontaneamente emarginati e godrebbero peraltro di una reputazione affatto brillante, connaturata ai disvalori che incarnano. Della serie: o uno il coraggio ce l’ha, o non se lo può dare*.
Forte di questa idealità, terminati gli studi, decisi per vocazione che avrei voluto partecipare alla categoria dei buoni: il che significava imparare un mestiere ed imparare a farlo bene, con la missione eroica e definitiva di poter recare in qualche modo conforto e sollievo a chi soffre (dell’atroce mal di denti).
Nella mia testa immaginavo una vita professionale tranquilla.
Dopo una massiccia e faticosa fase di addestramento-apprendimento (quanti corsi mamma mia!!), tutto poi sarebbe disceso da sé, come conseguenza naturale: i pazienti entusiasti del mio lavoro, mi avrebbero ringraziato ed inviato altri pazienti e così via.
Rifiutavo di accettare la diffusa convinzione che l’odontoiatria fosse qualcosa di non troppo diverso dal tappare buchi di denti marci, su persone sostanzialmente passive e con colossali pregiudizi, per effetto dei quali sarei stato dipinto e tuttalpiù sofferto come una creatura sadica-sanguinaria-scalzacane-avida-ignorante.
Cosi, di pari passo, ripudiai i primi consigli di colleghi navigati, molto più grandi di me, i quali in buona fede mi ammonivano di non infrangere la regola aurea del commercio: “il cliente ha sempre ragione” e di non violentarlo con sedute lunghe ed operose, perché probabile fonte di immanente stress.
Per fidelizzare a vita un paziente era sufficiente per prima cosa non provocargli dolore durante l’anestesia. Quindi custodirlo con saggezza alla bisogna (cioè soltanto quando si manifesta un problema), seguendo un agenda di appuntamenti brevi e ravvicinati, evitando trattamenti troppo complessi e amministrarlo concedendogli di pagare poco, ma per lungo tempo…una sorta di subdola fideussione, ma con contestuale azzeramento o quasi dei preventivi non accettati.
Ed ecco realizzato il paziente perfetto: piacevolmente inconsapevole della terapia, ma orgoglioso di poter gridare al suo mondo “il mio dentista è un mago, non sento assolutamente nulla e pago pure poco”.
Poco importa se per effetto di questa gestione la sala d’attesa è ricolma e sei costretto a servire i pazienti con vistoso imbarazzante ritardo: tanta gente in attesa, in definitiva, certifica nell’immaginario collettivo che sei bravo davvero un bel po’.
Poco importa se per effetto di questa gestione l’attenzione al particolare è praticamente nulla e la qualità delle prestazioni erogate è mediamente scadente: il paziente non sarà mai in grado di poterla valutare correttamente.
Poco importa se per effetto di questa approssimazione si possano creare situazioni spiacevoli sulla pelle dei pazienti, con danni biologici spesso di notevole entità.
La malpractice ai tempi delle vacche grasse non era certo un problema e di contenziosi nemmeno l’ombra: il paziente, abbandonato nella propria totale ignoranza specifica, era infatti facilmente manipolabile e addomesticabile. Scaricargli la colpa per non aver adeguatamente seguito le più elementari manovre di igiene orale era prassi consolidata ed una scappatoia dalle proprie responsabilità troppo comoda per durare a lungo.
Più tardi negli anni realizzai con amarezza che questi erano i consigli del Califfo, ovvero di una maniera di esercitare la professione a mio avviso incredibilmente arretrata e spaventosamente gretta, che respinsi immediatamente e che avrei combattuto con tutte le mie forze.
Constatai purtroppo che questo approccio al lavoro era stato, e per molto tempo in realtà, la regola e che la categoria aveva costruito sì una ricchezza smisurata, ma al prezzo salatissimo di una pessima reputazione, di cui certamente presto o tardi avremmo dovuto rispondere tutti quanti.
Quel giorno è arrivato. I cosiddetti low-cost hanno accelerato il declino inevitabile di quel modo di esercitare il mestiere, abbattendo maltollerati privilegi legati a tariffe percepite universalmente come sanguinose. E ingiustificate, proprio perché invece che corrispondere un servizio di reale valore, ci si è preoccupati piuttosto di battere cassa.
All’inizio accolsi con entusiasmo questo rinnovamento, che giudicavo doloroso, ma necessario, perché confidavo che presto o tardi, chiunque avrebbe interiorizzato la differenza lapalissiana fra caro e costoso**. Presto o tardi i pazienti avrebbero riflettuto e compreso il fatto che pagare poco per avere indietro poco, quando va bene, non è certo un affare. E quando va male, pagare poco per avere in cambio un lavoro mediocre, che magari causa un certo disagio, significa niente più e niente meno che buttare i propri risparmi. A riprova del precetto dell’azdora***: chi spende poco spende due volte.
È solo questione di tempo, pensavo…e mi sbagliavo!
Vennero infatti i tempi del cazzaro, un esemplare insidioso perché per generare profitti è pronto a mentire. A maneggiare. Così è disposto a regalare ai pazienti il proprio tempo (visita e preventivo gratuiti o senza impegno), ma per vendere qualcosa, facendogli percepire un problema che magari non esiste. Dispensa garanzie a iosa (a vita??) sulle terapie spingendoli tra le grinfie di un sedicente promotore finanziario che confeziona all’uopo un bel finanziamento.
Basta una firma e l’affare è concluso: il paziente è accalappiato.
Il paziente firma e la clinica chiude? Nessun problema, continua a pagare.
Il paziente firma e il lavoro va male? Nessun problema, continua a pagare.
Il paziente non è soddisfatto e vuole interrompere il trattamento? Nessun problema, continua a pagare.
Lentamente si scivola in una dimensione pericolosa e spietata, il bene salute trattato alla stregua di un prodotto: si rischia di vendere non ciò di cui il paziente ha realmente bisogno, ma ciò che è più vantaggioso per realizzare profitti. Il paziente cessa di essere tale e diventa cliente.
Per contro tanti clienti, ormai abituati a considerare solamente il fattore economico, cominciano a vagare (o peggio telefonare) di studio in studio come novelli raminghi, alla ricerca del preventivo più conveniente, magari pretendendo, mal-educati dal generale andazzo, udienza gratuita.
Senza domandarsi nemmeno per un attimo cosa possa celarsi dietro cotali mirabolanti offerte.
_Igiene a 29 euro (quando va bene)! Sì, ma fatta da chi? Igienista diplomato, neolaureato o assistente di studio odontoiatrico (ASO)? Soprattutto come? In quanto tempo? Con strumenti sterili?
_Denti fissi in 24 ore! Si, ma in che modo? Tolgono denti sani o perfettamente recuperabili per mettere impianti? Quali denti poi? In resina o in ceramica? Provvisori spacciati come definitivi? Con quale perizia tecnica sono realizzati? Qual è la competenza del laboratorio odontotecnico coinvolto?
_Garanzia a vita! Come dire: se mia nonna avesse le ruote sarebbe un carro armato. Cosa significa garanzia a vita? Ma in quale altro settore del commercio viene offerta una simile assicurazione?
_Entri con un problema ed esci con il sorriso! E probabilmente con un problema più grande di cui però ti accorgerai fra un po’ di tempo. Questi filibustieri giocano sul tempo, sulla latenza del fallimento. Fanno previsioni su quanto tempo hanno per farla franca e su quante toppe possono mettere prima che crolli la commedia di un lavoro fatto male, ma venduto bene.
Il peggior marketing: quello che modifica l’annuncio, ma non il prodotto.
Quello della facciata: sono cliniche belle, attraenti, moderne, con grandi vetrate, illuminate a giorno e attrezzate di tutto quello che l’avanguardia dell’industria dentale mette a disposizione. Palcoscenici scintillanti studiati ad hoc per catturare ignari avventori, ma che nascondono compromessi indicibili e all’interno dei quali spesso si mescolano vicende personali drammatiche, come puntualmente riportato dalle cronache locali.
Seduto sulla riva del fiume mi è capitato di constatare quanta superficialità sia oramai radicata nel nostro travagliato mestiere, quanta approssimazione, quanta noncuranza. E ancora abissi di ignoranza e sconfinata incompetenza in un mare di presunzione.
Ma la speranza, si sa, è sempre dura a morire. Mi aspettavo un sussulto di dignità ed etica e perché no, un ravvedimento operoso di qualche califfo che, vistosi surclassato dall’irruenza del cazzaro, potesse riorientare e riorganizzare la propria professionalità per fornire un servizio memorabile, esclusivo, eccellente. Invece no.
La costante incertezza e il drastico calo della domanda legato alla perdurante congiuntura economica hanno reso il califfo ancora più spietato e pronto a tendere l’agguato al paziente, come un ultimo disperato assalto alla diligenza nella speranza del colpo perfetto. Terapie one-shot, mordi e fuggi, senza attenzione, senza premura, senza coscienza. In un’inesorabile discesa all’inferno in cui si è fatto trascinare anche qualche buono che, spaventato e disorientato, ha scelto mestamente di cambiare casacca e varcare il confine.
Quindi mi ritrovo qui ad aspettare ancora il mio turno; un altro, l’ennesimo giro di giostra.
Nel frattempo mi domando come mai i buoni fatichino sempre in questo mondo che sembra girare ostinatamente al contrario e d’un tratto comprendo quello che mi manca…quello che ci manca.
Si chiama comunicazione, ovvero portare il verbo, la nostra verità.
Riconoscere prima di tutto l’errore fatale di averla data per scontata, di non aver capito che si trattasse di un vocabolario troppo difficile perché i pazienti potessero acquisirlo spontaneamente.
L’amara verità è che li abbiamo lasciati soli i pazienti, non siamo stati in grado di aiutarli ed in definitiva li abbiamo abbandonati alla mercé dei califfi e dei cazzari e forse è maledettamente già tardi. Troppo tardi. Il mondo continua a girare a un ritmo che i buoni non comprendono, né possono comprendere perché abbagliati dal fulgore di quella passione che li rende così originali, così visionari, così idealisti.
Predicatori romantici in questo moderno e sterminato deserto dei tartari.
Ma come in tutte le storie che si rispetti, che fine faranno i buoni?
Saranno sopraffatti oppure ispireranno e guideranno un nuovo rinascimento intellettuale, di cui si sente un disperato, urgente bisogno in tutti i campi del vivere?
Tuttavia la domanda essenziale è la seguente: come mai il buono si ostina a percorrere un sentiero impervio di crescita, di cultura, di etica ed estetica interiore?
Posso soltanto rispondere per me, per quella che è la mia esperienza e la mia visione di questo mestiere disgraziato e bellissimo. Disgraziato perché come già detto malconsiderato e spesso ridicolizzato. Bellissimo perché mai uguale a se stesso, piuttosto avvincente, vivace, dinamico, dove la conoscenza e il rispetto di chiare linea guida cliniche lascia aperte praterie sconfinate alla fantasia, all’estro personale, persino in alcuni contesti al talento artistico.
Ad esempio, quando ricostruisco un dente cerco di restituire la forma originale perduta in seguito a trauma, carie o a causa dell’intervento maldestro di qualche califfo o cazzaro.
L’atto restaurativo per me diventa uno spazio catartico e una dimensione votata alla ricerca della perfezione, dove il tempo scorre lentissimo e talvolta anche il respiro si ferma. Ricreare la complessità delle forme ed inseguire le mille sfumature dei colori naturali consente in qualche modo di elevare l’atto terapeutico a qualcosa di molto di più che guarire una lesione.
Significa spesso rigenerare, ovvero ridonare freschezza e vitalità.
È nutrendosi di questa energia che si riceve in dote l’entusiasmo necessario a sopportare lo sforzo della concentrazione che il lavoro fine richiede e a superare la frustrazione derivante dall’incomunicabilità di tanta accuratezza. In definitiva dalla reale impossibilità di essere del tutto compresi in quello che facciamo.
Quando fotografo cristallizzo la fatica e la trasformo in gratificazione, perché la fotografia mi consente di misurare i miei passi, ricordare da dove sono partito, dove mi trovo e dove voglio andare.
Ho la chiara consapevolezza che il paziente non capisca cosa stia “armeggiando”, così come non tutti mostrano la curiosità di rivedersi negli scatti. Anzi, vince maggiormente a volte il disgusto, altre l’imbarazzo, talora l’indifferenza.
Tuttavia comprendo che gli arriva l’impegno, la premura e l’attenzione che ci metto.
Respirano in sostanza la mia stessa passione e di questa passione risplendono anch’essi.
Non avranno fino in fondo realizzato cos’abbia “trafficato”, ma sanno per certo che ho fatto del mio meglio, sanno per certo che gli ho voluto bene. E questo basta. Ad entrambi.
Ci sono poi almeno un altro paio di aspetti che concorrono a rafforzare la convinzione che lavorare secondo etica sia l’unica strada percorribile per ricavare piena soddisfazione.
La prima sensazione si avverte nello spogliatoio: quando indosso il camice capisco di vestire anche la missione ultima di recare conforto, alleviare la pena, soccorrere chi ha bisogno, chi in quel momento sta combattendo contro uno dei dolori più ancestrali del corpo.
Significa soprattutto aiutare il paziente a vincere paure tremende e legate ad un passato truce, anche se oramai non più giustificate.
Ascoltare il paziente, immedesimarsi nel suo disagio, tessere lentamente la tela della confidenza, conquistare passo dopo passo la sua fiducia perché hai chiaro in mente la regola non scritta del transfert: nel prendere qualunque decisione clinica, pensa sempre a cosa vorresti fosse fatto a te se ti trovassi su quella poltrona al suo posto. Niente di più, niente di meno: tratta il paziente come se fosse tuo/a figlio/a (the daughter test).
Quindi la serenità interiore che regala una giornata bene spesa: l’essersi adoperati al massimo delle proprie capacità professionali consente di accedere ad una dimensione esistenziale oltre i concetti di giusto e sbagliato, dove anche le necessarie e pragmatiche logiche imprenditoriali perdono di significato.
Infine gli amici: quelli che incontri ai corsi, casualmente sempre gli stessi. Una comunità di inguaribili appassionati che si aggiorna, si mette in discussione, prova a migliorarsi, a spostare i propri umanissimi confini.
Persone animate dagli stessi valori per cui comprendi che non sei l’anomalia, ma fai parte di un progetto più grande di cui probabilmente ti sfugge la portata. In questa confraternita ho trovato amici autentici con cui condivido quest’incerto orizzonte e che rendono migliori i miei giorni.
Questo basta a rispondere alla domanda da cui siamo partiti: il buono si ostina a percorrere quel sentiero impervio di crescita, cultura, conoscenza semplicemente perché non è solo e perché è l’unico percorribile onestamente, senza vergogna e nemmeno un rimpianto.
Tanto basta per essere grati.
“Questo decise la sorte del bufalo, l’avvenire dei miei baffi e il mio mestiere” – F.D.G, Bufalo Bill
Matteo
* cit. Alessandro Manzoni – I promessi sposi
**differenza fra caro e costoso: caro significa che il prezzo è percepito come eccessivo e non giustificato rispetto al valore del bene-prodotto-servizio offerto. Costoso significa che il bene ha un prezzo elevato ma adeguato e giustificato dall’eccellenza del bene-prodotto-servizio offerto
***simbolo della Romagna, identifica la reggitrice della casa contadina, custode delle tradizioni e sinonimo di operosità e saggezza popolare
Post Scriptum:
IL DECALOGO DEL CALIFFO
1. Se il paziente non capisce sono cazzi suoi;
2. Se non capisce è lecito, anzi raccomandato fargli lavori fatti male, così impara;
3. Il paziente va servito in massimo 20/25 minuti (convenevoli compresi), perché stare alla poltrona è stressante e ne può inficiare drammaticamente la qualità della vita;
4. Non ti stressare a fare lavori di qualità: nessun paziente potrà mai comprenderli e saresti costretto a farteli pagare molto, con un duplice scompenso: il paziente spende di più e tu guadagni molto meno;
5. Se il paziente rompe i coglioni o è un caso estremamente complesso allungagli 50 euro e levatelo dai coglioni;
6. Fai fattura solo se strettamente necessario (vedi anche punto 4);
7. Fatti sempre ripagare i lavori che falliscono anche se li hai fatti male: è sempre il paziente che non capisce ed è giusto così;
8. Per acquisire nuovi pazienti adotta strategie clientelari;
9. Un buon odontoiatra è tesserato a più associazioni (Lions, Rotary, Massoneria, Coop, Conad, Bocciofila, Dopolavoro Ferroviario, etc.);
10. Risparmia su tutto ciò che è superfluo, prendi i materiali e le attrezzature più scadenti e riserva la sterilizzazione solo allo stretto necessario (la bocca è una fogna, per cui cazzo sterilizzi?)
Dovrebbe essere una riflessione di tutti……eppure…….il futuro non sembra roseo.
A noi il compito di non arrendersi, per continuare a navigare verso la giusta meta……
Bravo Matteo, ti conosco molto poco ma quanto dici e quanto fai ti rende, almeno, molto onore
Buongiorno Gaspare,
grazie per il commento! Sicuramente il presente non è semplice, ma come dici è vietato arrendersi.
Andiamo avanti provando a divulgare il valore di una professione esercitata con competenza ed onestà.
Buon lavoro e a presto.
Salve Matteo,
bell’articolo, forse un pò lungo, ma credo servisse per chiarire bene tutti i concetti espressi.
L’auspicio di un “Rinascimento culturale” è super condivisibile, aggiungo anche “culturale e morale”.
Forse è vero che il vostro lavoro, cioè tutto quello che sta prima, durante e dopo a “una seduta del paziente” soprattutto quello che c’è prima e dopo non è visibile a noi pazienti e pertanto non ne abbiamo nè la percezione nè la consapevolezza. Bene fate a divulgare tutto il vostro sapere, la vostra competenza, la vostra passione e professionatilità in questo blog. Personalmente ve ne sono grada, perchè sto apprendendo tanto.
Purtroppo il tema del “lavorare con competenza, professionalità, onestà e aggiungo passione” è un problema che si riscontra in tutti i contesti lavorativi, pertanto non siete soli in questo mondo dove tutto è “consumismo sfrenato e arricchimento a qualsiasi costo senza guardare in faccia a nessuno”. Ma sono ottimista, perchè ultimamente incontro sempre più professionisti in campo medico e paramedico, giovani, bravi, competenti e appassionati. E questo mi fa ben sperare. Per cui non mollate!
Buona giornata, illuminata dal sole e dalla gioia!
Cristina
Buongiorno Cristina,
grazie del commento e delle considerazioni che condividiamo pienamente.
Il nostro desiderio è portare un po’ di luce in un settore dove frequentemente il paziente si trova al buio nel prendere decisioni che possono avere importanti ripercussioni sulla propria salute.
Le scelte non sono semplici e le sirene sono tante.
Spetta a ciascuno di noi, in qualunque campo come dici giustamente, provare ad approfondire, cercare cultura, formazione, conoscenza.
Solo così le nostre scelte potranno essere un poco più consapevoli.
Va di pari passo col provare a migliorarsi come individui, spostare con fatica i propri limiti, educarsi, trovare un senso, dare in definitiva prospettiva più elevata ai nostri giorni.
Quindi anche più utile alla collettività.
Continuiamo a sperare!
Grazie per la partecipazione al blog.
A presto
Matteo
Carissimi,
Purtroppo ci “parliamo addosso”…
Il discorso sarebbe molto lungo ed… inutile, il problema è alle radici della societa attuale “virtuale” che dalle basi ha fatto perdere i valori.
Noi siamo una “pulce nell’orecchio del bue”, per ora non vedo come potrà esserci un futuro roseo per chi verra’.
Cio’ non toglie che chi possiede nel proprio io certi valori non li rinneghera’ mai; non fantastichiamo però sperando di riportare alla ragione gli “ultras” delle curve!
Ad Majora….
Guido