Il piano inclinato, l’ultima sigaretta e per chi suona la campana

di | 3 Dicembre 2020

La crisi come opportunità per ridisegnare il lavoro

Corrono tempi strani.

La crisi causata dalla pandemia da COVID-19 si manifesta sotto tutti i punti di vista: economico, sociale, scientifico, individuale. E ci presenta il conto di tutti gli errori commessi (per inadeguatezza o incompetenza o entrambe) e che abbiamo scelto, più o meno consapevolmente, di non vedere. 

Oppure più umanamente di non affrontare perché sempre più grandi di noi o perché troppo impegnati a sopravvivere.

Il momento è critico, il punto di rottura vicino. Si dirà che è un’occasione storica per sistemare le storture, le incomprensibili inefficienze, frutto di decisioni scellerate e lasciate incancrenire negli anni.

Si dirà anche che il sistema ha retto in un contrappunto saturo di retorica che celebra eroi in tempo di pace. Medici ed infermieri paladini civili pronti all’uso, quindi da taglieggiare e dimenticare in fretta, passata la buriana.

Questa pandemia ha scardinato gli equilibri e aperto scenari sconosciuti ai più, dove l’incertezza è l’unica prospettiva praticabile. In qualche modo ci ha riportato al punto di partenza, ancestrale, esistenziale della condizione umana: da un lato l’istinto di sopravvivenza, dall’altro il senso di finitidune. 

Ma ci ha anche concesso la cosa più preziosa che abbiamo e che dimentichiamo nella frenesia di una vita scandita dal ritmo occidentale dei consumi: il tempo. Tempo generato dall’inattività forzata. Tempo che può essere ben speso per riposare e per pensare. Per riprendere contatto con la dimensione quotidiana dell’esistenza, che è altro dal ciclo svegliarsi – mangiare – lavorare – aperitivo – scopare – dormire.

Il piano inclinato: la sfera che accelera. Significa che le disgrazie non vengono mai sole.

Tanti hanno sbarellato, travolti dal trauma psichico per l’interruzione di quella pseudo-socialità che bastava a temperare la propria depressione latente. Altri si sono rifugiati nel web, nell’alcool o in qualche altra assuefazione. 

Noi abbiamo provato a mettere a posto cose da tempo lasciate in sospeso. Un lungo elenco di voci non spuntate, che ricorrevano come boomerang ad ogni riunione, perché travolti dalla routine del lavoro eravamo troppo occupati ad amministrare la quotidianità che mutava.

Tranquilli lo facciamo domani” ripetevamo. Inconsciamente stavamo semplicemente assistendo ad una metamorfosi spaventosa.
Noi l’abbiamo sentito chiaramente the wind of change – il vento del cambiamento. 

La professione che rapidamente mutava vestito, sospinta dal favoloso marketing odontoiatrico da mercatino delle pulci. Non più terapie dai nomi complessi, ma prestazioni da vendere. Sempre più mordi e fuggi e quindi meno “programmabili”. La dentisteria imprenditoriale: sticazzi! (dentix-le-catene-e-il-titanic/)

Anche i pazienti sono cambiati, le loro esigenze, la loro curiosità.

Ormai tutti offrono tutto, la capacità critica di valutare la professionalità è minima, figuriamoci la competenza. L’unico elemento rimasto realmente differenziante è il servizio al paziente, con buona pace di quanti pontificano di qualità, tecnologia, promozioni, sconti civetta (il 32% dei consumatori smettono di fare affari con un brand che amano dopo una sola brutta esperienza).

Qui si torna alla vocazione primaria ed essenziale della medicina: curare, ovvero avere cura dei propri assistiti. Preoccuparsi di loro, dei loro bisogni certo, ma anche della loro salute, che significa benessere, che significa più in generale occuparsi anche delle loro fragilità. 

Il bello di un simile approccio è che non ci può essere finzione, perché se il paziente non sarà mai in grado di valutare la tecnica, certamente sa percepire l’attenzione che gli viene riservata.

Questo significa in buona sostanza risorse umane ed estetica.

_Estetica della professione: ovvero deontologia. Dichiarazione trasparente dei valori e della vocazione dello studio (MISSION/VISION).

_Estetica delle relazioni: empatia, correttezza, capacità di ascolto, atteggiamento di sincera accoglienza ai bisogni individuali.

_Estetica delle persone: significa collaboratori allineati ai valori aziendali, disposti a collaborare ed impegnarsi per un obiettivo comune (TEAMBUILDING).

_Estetica dell’ambiente: ordine, pulizia, calore, profumo sono pulsioni sensoriali istintive che ci fanno immediatamente percepire un ambiente confortevole, accogliente (HOUSEKEEPING). Un logo, divise pulite, un sorriso: indizi elementari che ci rendono prontamente riconoscibili.

_Estetica del lavoro: significa formazione e aggiornamento delle conoscenze scientifiche e delle competenze cliniche. Fare le cose giuste (check-list), nel modo giusto (procedure operative), garantendo la propria e altrui salute (protocolli di sicurezza). Una voce anonima, ma enorme nel bilancio aziendale (KNOWLEDGE ECONOMY).

_Estetica della tecnica: è qualcosa di più della perizia. È la ricerca costante di migliorarsi, la viscerale necessità di tendere alla perfezione. Il solo fatto di provarci è una conquista personale, intima, gratificante. Un lavoro ben riuscito è soprattutto una soddisfazione emotiva. 

Questa è una dimensione che non è possibile misurare con il metro consueto degli affari e proprio per questo viene generalmente ignorata. È qualcosa di profondo, spesso impalpabile, ma così rilevante per la salute di qualunque attività che sarebbe illogico e dannoso non considerare. Si chiama CAPITALE UMANO e riguarda la vita dei collaboratori, i loro bisogni, i loro sogni, le loro ambizioni. L’enorme potenziale che hanno di contribuire al successo aziendale, grazie alla capacità di sprigionare ricchezza, allorquando le persone vengono educate (da ex ducere: tirare fuori) e valorizzate nei loro talenti.

Pochissimi sanno realmente cosa sia, figuriamoci quanti provino a “gestirlo”.

Noi ne eravamo a conoscenza, ma ci siamo scontrati con la realtà, che è sempre molto più dura di come la immagini. Probabilmente non eravamo nemmeno “attrezzati” o più semplicemente abbiamo bilanciato male la nostra utopia. 

Ma che di lì si dovesse passare tutti noi lo sapevamo. Tutti! Anche chi crede ancora che questa (ennesima) crisi non lo riguardi, chi se ne sta asserragliato nella propria torre d’avorio, chi si compiace del proprio orticello. Ne è testimonianza la miriade di offerte di consulenza manageriale di individui stravaganti ed improbabili. 

Gente che non ha la minima idea di cosa sia uno studio dentistico moderno e che ripete a mitraglietta slogan banali e regole di buon senso ormai disponibili ovunque.

Gente capace magari di leggere un bilancio fiscale, che predica cambiamenti come se fosse la cosa più semplice del mondo, farnetica di persone come fossero pedine su una scacchiera, stacca parcelle faraoniche per declamare ovvietà che nessuno vuol sentirsi dire e proporre soluzioni drastiche agli stessi individui che quelle soluzioni, per paura o quieto vivere, non hanno mai voluto percorrere. 

Guardandosi bene dall’affrontare de visu il lato oscuro della questione: la totale mancanza di una visione strategica, l’inerzia generata dall’abitudine, la naturale refrattarietà al cambiamento, l’avere a che fare con una realtà complessa e dove le persone sono intimamente concatenate come le carte di un castello. Memento mori: capisci perfettamente e magari sai già da tempo che ne devi rimuovere qualcuna, ma non lo fai semplicemente perché hai timore che venga giù tutto.

Investire sulle persone, tornare ad occuparci di loro: questo dovevamo fare.

Questa pausa forzata era dunque un segno lucente, inevitabile. L’estrema opportunità per dedicarci alle nostre risorse umane (PEOPLE-MANAGEMENT). Sliding-doors: ultimo appello per rendere moderna, virtuosa e visionaria la nostra attività. 

Questa era la nostra ultima sigaretta. Perché da soli check-list, regole e protocolli non bastano. Perché nessuna check-list potrà mai colmare un deficit di competenza, vera e propria zavorra di ogni occupazione. 

Competenza e resilienza (ovvero capacità di adattamento) sono le principali virtù in grado di permettere la sopravvivenza delle organizzazioni lavorative in tempi di crisi.

Quello che ci manca.

Un vuoto culturale trasversale a tutte le professioni, ennesima eredità di un sistema scolastico sgangherato e del provincialismo universitario. Un deserto testimoniato dalla qualità dei curricula che giungono in ogni gabinetto odontoiatrico per un posto da assistente alla poltrona. Altro termine agghiacciante che fa pensare più ad un maggiordomo, che ad una figura con compiti delicati e precise responsabilità, centrale per tutta la filiera che genera il reale valore dello studio: quel servizio al paziente di smaltata eccellenza (cit. Agide Bellettini alias Anonimo Romagnolo).

La competenza si crea con la formazione dei collaboratori, a cui poi occorre istillare quel quid in più, ingrediente segreto di ogni brand di successo. Il seme virtuoso dell’appartenenza, del senso etico, della fiducia. Agire e pensare naturalmente come una squadra, credere di poter marcare la differenza, renderli partecipi di una vicenda professionale e umana capace di generare passione, entusiasmo, gratificazione interiore. 

Ed in definitiva bellezza. Quella che salverà se non il mondo, almeno noi stessi.  

Si tratta di un progetto enorme. Lo si può costruire, ma richiede moltissimo tempo. Questi mesi ce ne hanno concesso una buona parte. Non sappiamo se alla fine riusciremo a traghettare alla terra promessa della tranquillità. Sappiamo soltanto che ci stiamo provando con ogni nostra energia disponibile.

Se falliremo sarà stato comunque bello tentare e sognare. Senza rimpianti ci metteremo in fila e accoderemo i nostri nomi alla lunga lista di individui in attesa del rintocco di quella maledetta campana. 

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