I numeri che non tornano

di | 5 Febbraio 2021

La telefonata

L’altro giorno, parlando al telefono con una collaboratrice per una questione di lavoro, ho percepito dalla voce un’insolita stanchezza. Non quella fisica, legata magari ai ritmi occupazionali spesso forsennati nell’ambiente sanitario. 

La voce rotta e i lunghi silenzi mi segnalavano distintamente una frattura profonda, dolorosa. Una sorta di disillusione. Un misto di impotenza, esasperazione ed anche tristezza. 

Mi era capitato in diverse occasioni di lavorare insieme a lei e ho sempre avuto netta l’impressione di una collaboratrice fedele, discreta, preparata, professionale, amante del proprio mestiere e radicata nell’affetto ad una realtà in cui aveva speso gran parte della propria giovinezza e nella quale era diventata adulta, servendo con dedizione e onorando la propria vocazione verso i pazienti.

Abbiamo parlato di una ragazza che avevo visitato tempo fa e una volta terminato di esaminare gli aspetti clinici, ho deciso di rischiare e avventurarmi nel domandarle: “tu come stai?

“Abbastanza bene” la sua risposta, secondo il rituale ormai consolidato della distanza interpersonale. La fredda metrica della consuetudine di nascondere il dolore, come se fosse possibile o servisse a qualcosa. 

Potevamo finirla qui, con il classico dell’evanescenza comunicativa: “sentiamoci presto, mi raccomando” e tornare alle rispettive insignificanti faccende.

Tenere le distanze, evitare di preoccuparsi dei guai altrui. La sterile liturgia della sopravvivenza. 

Da quello che vedo non siamo assolutamente preparati a gestire correttamente i sentimenti. La razionalità è l’unica matematica del pensiero praticabile. Purtroppo non è in grado di spiegare tutto. Che lo si voglia vedere oppure no, la quota viscerale dell’essere umano rappresenta una presenza ingombrante, che presto o tardi darà segno di sé, pretendendo la nostra attenzione.

Quindi decido inopinatamente di insistere: “ma che succede?

Con la solita dolcezza, F. M. (iniziali di fantasia) mi raccontava di come le cose sul lavoro fossero cambiate, di come facesse fatica ad abituarsi al nuovo corso, di cui sostanzialmente non condivideva più né le premesse, né l’orizzonte. 

I numeri

Sapevo già dove andavamo a parare. Ho avuto tempi di invecchiamento professionale molto precoci, probabilmente perché non ho mai rifiutato alcun tipo di esperienza. Nel mio vagare lavorativo, quando ero un giovane collaboratore di studio, ne ho viste davvero di tutti i colori. È anche grazie a questo battesimo del fuoco che ho stabilito nitidamente la scala dei miei valori e deciso quale sentiero avrei voluto percorrere, che tipo di medico avrei desiderato diventare e soprattutto che tipo di persona non avrei voluto essere.

Ho intrapreso il mio cammino professionale con i miei fratelli acquisiti Davide e Letizia nel lontano 2001. Vent’anni di purissima passione: un amore intrinseco per il mestiere e quel rigore professionale ereditato dai nostri maestri e perseguito con etica calvinista.

Durante questi anni del nuovo millennio, noi l’abbiamo sentito chiaramente the wind of change – il vento del cambiamento. La professione che rapidamente mutava vestito, sospinta dal favoloso marketing odontoiatrico da mercatino delle pulci. Non più terapie dai nomi incomprensibili, ma prestazioni da vendere. Sempre più mordi e fuggi e quindi meno “programmabili”.  

Un atteggiamento spregiudicato che ha sdoganato senza star troppo a sindacare una consuetudine fino ad allora diffusa, seppur nascosta. Il profitto come unica mission personale. A qualunque costo, anche operando al di fuori dell’interesse dei propri assistiti. Entrando in quella enorme area grigia che è la furfanteria professionale. Nella testa di questi corsari i pazienti smettono di essere tali e diventano clienti. Quindi numeri: le delicate questioni cliniche subordinate a quelle economiche, ovvero considerate ed affrontate unicamente in relazione alla loro potenzialità di generare utili.

F.M mi raccontava che anche nella sua realtà si era deciso di saltare il fosso, abbracciando il lato oscuro: quel richiamo del dio denaro, con l’aggravante di non avere una strategia, ovvero un disegno organico riformatore degli asset interni, che potesse in qualche modo tradursi in un migliore servizio ai propri assistiti. Insomma si era scelto di guardare soltanto ai numeri.

È il nuovo testamento predicato da questi pseudo-manager di stocazzo applicati alla dentisteria. Scappati di casa che non riescono proprio a comprendere tre concetti elementari quando si opera in ambito medico: 

  1. il profitto deve essere la conseguenza di buone terapie e di un ottimo servizio globale,
  2. non tutto è quantificabile in termini economici (chiedere a chi si sbatte ore e ore a fare e disfare un incisivo centrale o cerca ostinatamente di eseguire lavori a regola d’arte),

e soprattutto 

  1. i numeri si creano con le persone (giuste!).

I lavoratori all’interno dell’organizzazione, infatti, costituiscono il vero e proprio motore della competitività aziendale e del valore generato dai prodotti e servizi immessi nel mercato. 

È chiaro, dunque, che valorizzare un asset caratteristico come quello umano significa per l’impresa acquisire un vantaggio competitivo rispetto alle organizzazioni che, invece, non hanno ancora compreso l’importanza delle abilità e delle competenze delle risorse umane nella creazione di valore aziendale.

Quello che l’economista e premio nobel Theodore Schultz ha definito CAPITALE UMANO, proprio per indicare l’importanza del VALORE UMANO, espresso sia individualmente sia nel collettivo, nel decretare il successo (o l’insuccesso) dell’impresa.

Le persone

Operando quotidianamente in un team di persone, durante questi anni mi sono reso conto che la gestione della dimensione emozionale degli individui coinvolti nelle organizzazioni aziendali era nella migliore delle ipotesi largamente sottostimata. Nella peggiore ignorata del tutto. 

Questo rappresenta un abisso organizzativo atroce, perché alla lunga si traduce in una serie a cascata di errori potenzialmente fatale per qualunque attività: svarioni madornali nella selezione del personale, conseguente difficoltà di costruzione delle competenze necessarie, quindi inefficienza, disorganizzazione, fino ad arrivare ad atteggiamenti ostili, con il boicottaggio sistematico dello svolgimento delle operatività quotidiane (tu fotti me, io fotto te).

Questo vuoto ha radici lontane: gli imprenditori vogliono i numeri. I numeri sono la religione. Esiste soltanto ciò che è misurabile. Il resto sono chiacchiere! 

E poco importa la lezione di Adriano Olivetti: quello che all’interno delle proprie industrie costruiva biblioteche (e molto altro), perché il lavoratore non si riducesse soltanto a un povero garzone, vittima ed ingranaggio di un sistema di produzione, ma avesse la possibilità di maturare un’autentica consapevolezza del sé (e del mondo) attraverso l’acquisizione di sapere, facilitandolo nell’accesso alla cultura.

L’uomo di fronte a un altro uomo: con ruoli diversi, ma pari dignità.

Non se ne è fatto nulla. Ha vinto un altro modello di sviluppo basato sull’efficientismo misurabile: i profitti quindi (e di lì budget, business-plan, ROI, break-even e sticazzi vari).

Non che i numeri non siano importanti. Anzi! Sono fondamentali alla sopravvivenza e allo sviluppo di qualunque realtà aziendale e al sostentamento di tutte le individualità in essa coinvolte (stakeholders). Non è possibile, almeno al momento, pensare ad un’impresa avulsa dalla dimensione degli utili (le organizzazioni cosiddette no-profit si collocano ed operano nel settore del volontariato), ma occorre specificare una volta per tutte che c’è un profitto buono ed uno cattivo. Lo vedremo più avanti.

La passione

Eppure da molto tempo sappiamo che le persone prendono decisioni spinte da solide per quanto incognite pulsioni emotive. 

Da molto tempo sappiamo che il quoziente intellettivo, il cosiddetto QI, l’indice al quale affidiamo spesso la scelta dei collaboratori, rappresenta una stima molto parziale del valore di una persona, perché non è in grado di misurare quella che Daniel Goleman ha definito intelligenza emotiva (diventato poi un best-seller). 

Ovvero un insieme di competenze e capacità (consapevolezza di sé, autoregolazione, abilità sociale, motivazione, empatia) fondamentali sia per la costruzione di abilità pratiche (apprendimento – Know How), sia per l’instaurazione di relazioni positive e proficue con gli altri (condivisione delle informazioni e delle cognizioni, esercizio della leadership e teambuilding).

È altresì fondamentale che il lavoratore si riconosca nei valori aziendali, in modo che possa realizzarsi come individuo ed identificarsi come parte fondante e feconda di una squadra di persone votata alla costruzione di obiettivi virtuosi, liberando i propri talenti e sviluppando un sincero attaccamento all’organizzazione e ai suoi attori (fratellanza, fedeltà, solidarietà). 

In buona sostanza i numeri si costruiscono assumendo le persone giuste. 

Le persone giuste possono acquisire raffinate competenze.

Le competenze si traducono in sapere pratico ed efficienza organizzativa.

L’organizzazione produce un miglioramento del clima aziendale e del senso di appartenenza.

Il senso di appartenenza crea motivazione e soddisfazione, libera le risorse individuali, migliorando le performance e la produttività.

Migliori performance e maggiore produttività generano valore rendendo l’impresa altamente attrattiva ed in grado di distinguersi dai competitors.

Il successo nel mercato porterà il management ad adottare strategie premianti verso i propri collaboratori, gratificandoli ed innescando, di riflesso, una spirale virtuosa. 

Infine, un ambiente aziendale sano ed una piena soddisfazione dei propri stakeholder interni permetterà all’organizzazione di godere di una migliore reputazione esterna, in relazione anche allo scambio di informazioni che avvengono quotidianamente tramite blog, social network e altri strumenti del web, spesso utilizzati dai dipendenti stessi delle aziende.

Il problema è che troppi “cosiddetti” imprenditori non lo capiscono o non lo considerano.

A quella persona, che sta vivendo un periodo di profondo smarrimento e so che mi leggerà, voglio ripetere ciò che le ho detto chiudendo la telefonata. Ovvero che possiede un valore straordinario fondato su solide competenze professionali ed eccellenti qualità umane. Quel valore non può essere disperso, perché la costruzione di un collaboratore richiede tantissimi anni… troppi! Perciò, là fuori, ci sarà sicuramente uno studio che crede e pratica quei principi in cui lei si identifica: l’avere cura dei propri pazienti. Deve semplicemente rimettersi in cammino e non smettere di cercare, perché spegnere quella passione sarebbe un errore imperdonabile.

Ho visto con i miei occhi molte sue colleghe con il medesimo talento e lo stesso attaccamento al camice ammalarsi o lasciare, esasperate e consumate dall’incuria e dalla sciatteria con cui veniva oltraggiata la professione. Magari sperando che le cose potessero in qualche modo un giorno cambiare. Ma chi non ha la responsabilità di coltivare la qualità del proprio lavoro, come può avere a cuore la condizione dei propri collaboratori?

Il bivio

Quella chiacchierata mi aveva riportato indietro nel tempo, dandomi l’opportunità di elaborare il bilancio delle nostre scelte e rafforzando in me la convinzione che siano due gli atteggiamenti mentali e le modalità di fare impresa. Due strade divergenti. Come il bivio della poesia di Robert Frost. Una è mettere i profitti davanti a tutto. L’altra è far conseguire i profitti a una condotta professionale virtuosa improntata all’etica e alla deontologia. Tertium non datur.

Con un sospiro mi capiterà di poterlo raccontare chissà dove tra molti e molti anni a venire:

due strade divergevano in un bosco, ed io… io ho preso la meno battuta, e questo ha fatto tutta la differenza (La strada non presa – Robert Frost).

6 pensieri su “I numeri che non tornano

  1. Marica

    Meravigliose riflessioni, grandi scelte direzionali, capitale umano non quantificabile in valuta, complimenti per il vostro percorso!

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  2. Francesca

    Grazie Davide sei sempre illuminante!
    La cosa figa dell Itelligenza emotiva è che è come un muscolo e si può allenare. Aspettiamo i tuoi workout per allenarci!
    Francesca

    Rispondi

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